Gagliano del Capo
Racconto di Rocco, emigrante

1 settembre 1954 - 1991

Stazione ferrovie Sud Est

INTRODUZIONE ALL'ASCOLTO

Tra i binari della stazione di Gagliano del Capo c’è una figura che va avanti e indietro nell’oscurità ad aspettare un treno che a quest’ora di notte non arriverà. È un emigrante, uno dei tanti che dagli anni 50 hanno lasciato l’ultimo paese d’Italia per partire in cerca di lavoro. Ci ha notato, vuole chiederci qualcosa. O forse ha solo voglia di raccontarci cosa gli ha dato la sua vita d’emigrante, quale pena, quale tesoro.

Italiano

TESTO

Scusati, è passatu già lu trenu pe Lecce? … arù aggiu scire? Alla Svizzera, no? Adesso adesso se ne sono andate mia madre e le mie sorelle, non le avete viste mo che siete entrati? Mio padre no, non è venuto, che sta malato a casa, con l’asma. Che se no, era partito pure lui, mparu cu mie, e cu li fratelli più grandi, che mi stanno aspettando, a Coire. Così funziona, lo sapete no? Basta che sale il primo di una famiglia, e poi come a una catena quello chiama un fratello, che chiama il cognato e via di seguito. E nel giro di qualche anno, anzi, nel giro di qualche giorno, quando finisce agosto, Gagliano si fa disabitato.

Anzi no, ca le femmene rimannu. È come se in una notte solamente, a li primi de settembre, passa una mano grande su tutte le case del paese, una mano che si porta via tutti i maschi, uomini fatti e ragazzini. E rimangono solo gli occhi zitti delle nostre mogli, per le strade, e le gambe corte dei bambini.

Io, è la prima volta che sto partendo, e mo che ho salutato tutti, e mia madre, soprattutto, ci è mancato tanto così che prendevo la valigia cu ste quattru pezze, e me ne tornavo alla casa, un’altra volta.

Eh, me ne tornavo … e che facevo poi? Domani mattina, prima cu lucisce, mi dovevo prendere d nuovo la bicicletta di papà e pedalare per 20 chilometri, fino a Torre Pali, per un’altra giornata di zappa. Che poi il fatto di zappare a sutta allu sule dall’alba al tramonto, non è mancu la cosa peggiore1 La cosa chiù brutta è lu viaggiu cu dda cazzu de bicicletta, che al posto dei copertoni c’ha i fili d’acciaio grossi, che mio padre se li è fatti dare dagli inglesi, dopo il 45. Ogni buca per terra, e comu se la senti! e quannu rrivi a destinazione, prima ancora cu fatichi, già lu culu è na frasedda!

Il fatto è che qua, da quando è finita la guerra, davvero non c’è niente. «Mamma, che mangiamo oggi?», chiedo, certe sere, quando torno con una fame che mi sbranerei il tavolo con tutte le sedie intorno! «Pane e curteddu», mi risponde. Voi sapete che significa? Che sulla banca troviamo giusto il pane e il coltello per tagliarlo, io e mio fratello.

E noi siamo pure fortunati, che bene o male na pignata, o nu piattu de foie reste, o na poscia de fiche, non ci sono mancate mai. A costo di lavorare pure la notte. Figuratevi che la buon’anima di mio padre, una volta, per portarsi avanti col lavoro andò a zappare la terra del padrone al buio pesto. Solo che si sbagliò, e zappò per ore e ore la campagna a fianco. E a casa quella sera non portò niente lo stesso!

Per questo, questi giorni, gli amici che mi salutavano dicevano tutti: «eh, beato te, che vai alla Svizzera!».

... Ma quannu rria stu cazzu de trenu? A quest’ora dovevo stare già in viaggio per Lecce, che poi da lì devo prendere il notturno per Milano e …no, aspetta, ma ci cazzu sta dicu? E mica devo partire più? Che se ormai sono anni che sono tornato! E amposta no sta passa nuddu trenu!

Dal 54 al 91, signori miei, fatevi il conto: 37 anni d’emigrante, sono partito che ne tenevo 14 e sapevo di latte e sono tornato che ero nonno. 37 anni, ma voi vi immaginate quante cose ci possono stare in 37 anni? e soprattutto, quante cose che non ci sono state, che non mi sono potuto vivere!

I Natali, le Pasque, le domeniche, ma soprattutto i giorni normali, quelli in cui torni a casa, senti il profumo di tua moglie, e le mani dei bambini sulla faccia, e l’aria della sera che si appoggia sopra le lenzuola.

Quando sono partito, queste cose mica le sapevo ancora! La svizzera era come un sogno, una miniera d’oro che mi aspettava alla fine dei binari. A quell’età, e a quei tempi, a tante cose non ci pensavi. Pure quando a Lecce siamo saliti sul notturno e non c’era postu no dicu cu te setti, ma mancu cu stai tisu! De qua a Milano, e poi alla Svizzera: diciotto, diciannove, venti ore, in piedi come a nu citrullu, e se volevi andare al bagno dovevi passare sopra a quelli che dormivano per terra, e se poco poco spostavi un piede – un piede eh? – solo per riposarti su una gamba, c’era il rischio che quei centimetri di posto non li trovavi più, e rimanevi mpisu su n’anca sula, comu a na gru!

La prima volta che arrivai, e per tante volte ancora, feci le visite mediche, alla frontiera, caso mai li portavo qualche infezione, ieu, ca puru ca stia ntra terra tuttu u giurnu, la sira ero lindo e lucidato, ca mancu nu dottore!

Dopo che risultai idoneo cu faticu, mi portarono a 1800 metri, a lavorare dove costruivano una diga.  Lu friddu, la mattina, quando uscivamo dalle baracche per la colazione! Sbattìa li pedi ca sembrava deveru ca m’era pizzicatu la taranta, anche se penso che là sopra pure le tarante sentivano freddo, cu caccene lu pungiglione! Ma l’anno dopo, mi andò peggio! Passai a lavorare nelle gallerie a 3.000 metri d’altezza, a fare buchi e piazzare dinamite. Era giugno, e te mentivi doi, tre, quattru pantaloni, uno sopra l’altro, e calzettoni a tummanate, e sentivi freddo lo stesso!

Certe volte, quando non sentivi più le braccia, inchiodato da ore alla macchina traforatrice, ci pensavi, che stavi ficcato nella roccia a chissà quanti mila metri sopra una montagna, e ti facevi sempre una domanda: «Ma io che ci faccio qua?».

Zingari ci chiamavano, gli Svizzeri, a noi Italiani. Ma io non li sentivo, pensavo solo allo stipendio che arrivava a fine mese, e a quello che avrei fatto con i soldi: le medicine pe lu tata, la casa per me e la Gina, e poi pure quelle per i figli, nu domani. Tutto da quelle gallerie è venuto, tutto da queste due sole mani.

E face nenzi se aggiu postu una vita intera tra parentesi, se di ogni anno mi sono vissuto veramente solo due, tre mesi, quando tornavo pieno di giocattoli e con la paura pure, che Cosimo, il più piccolo, non mi avrebbe riconosciuto.

Anche se, vaditi no?, de la Svizzera unu non è ca torna mai del tutto. Rimani un poco a metà strada, cu lu core quai e li ricordi ca però te portene luntanu, e vidi montagne e senti cuntare lu tedescu puru ci sta camini ntra Gaianu. E non ti ricordi più se sei partito, se sei davvero ritornato, o non te ne sei mai andato.

Imu fattu na vita in sospensione, nanzi e retu susu a sti binari.

E la casa nostra, alla fin fine, è stata na stazione.

English

TEXT

Between the tracks of Gagliano del Capo’s station, there is a figure walking back and forth in the darkness, waiting for a train that, at this time of night, will not arrive. He’s an emigrant, one of the many people that since Fifties have left the last village of Italy to look  for a job abroad. He noticed us, and he would like to tell us something. Or maybe he would only like to tell what his emigrant life has given to him, what a pain, what a treasure.


Sorry, has the Lecce train come through yet?...Where do I have to go? To the Switzerland, of course. By now my mother and my sisters have left, haven’t you seen them while entering? But not my father, he didn’t come, because he’s sick at home, with the asthma. Otherwise he would have left too, together with me, and with my bigger brothers, that are waiting for me, in Coire. That’s how it works so, you know? As long as a family member goes up, like a chain, he calls a brother, the brother in law, and so on. Around some years, actually, around some days, when August comes to an end, GaglIano becomes uninhabited.

Actually not, because the women stay here. It’s like in only one night, by the first days of September, a big hand passes on all the village’s houses, a hand taking away all the men, adults and young. And remain only the silent eyes of our wives, on the streets, and the short legs of our children.

It is the first time for me to leave, and now  that I’ve said goodbye to everyone, most of all my mum, I nearly took my suitcase with a few rags, and I came back home, again.

Oh….I would came back… But later, what should I have done? Tomorrow morning, before darkness, I would have taken my father’s  bike again, and pedaled for 20 kilometers, until Torre Pali,  for another day of hoe. And  I have to say, hoeing under the sun, from sunrise to sunset, it is not the worst thing! The very bad thing is the trip by that damn bike, that has big steel wires for tires,  my father had them given by English, after ’45. Oh, how do you feel every hole on the ground! And when you arrive, even before you start working, you have your ass crushed!

The fact is that here, since war has finished, there is really nothing. “Mum, what ‘s for dinner today?”, I ask some evenings, when I come back home and I would mangle the table with all the chairs around! “Bread and knife”, she answers. Do you what does it mean? It means that on the table we find just the bread and the knife to cut it, me and my brother.

And we are even lucky, because, good or bad, we’ve never missed a pignata, or a dish of countryside grass, or a pocket of figs. At the cost of working even the night. Imagine that once, my dear departed father, in order to push his work through, went hoeing the master’s land at pitch dark. But he mistook, and hoed for hours the countryside nearby. And he didn’t bring nothing home that night, at all!

This is the reason why, by these days, my friend saying goodbye have told me: “oh, lucky you, going to Switzerland!”.

 

But… When will this damn train arrive?! I’m actually supposed to be on Lecce travelling, because from there I have to take the night train for Milan.

..oh no, wait, what I’m saying? I don’t have to leave anymore! I’ve come back since many years! Which is why  any train’s passing!

 

From ’54 to ’91, my sirs, you count: 37 years as an emigrant, I have left that I was 14 and I tasted of milk, and I’ve come back that I was grandfather. 37 years, but, could you imagine how many things could stay in 37 years? And, most of all, how many things didn’t be, that I couldn’t live!

Christmases, Easters, Sundays, but especially the normal days, that days that you come back home, and scent your wife, and children’s hands on your face, and the night’s air leaning on the sheets.

When I left, I didn’t know this yet. Switzerland was a sort of dream, a gold mine waiting for me at the end of the tracks. By that time, at my age, you didn’t think many things. Even when, at Lecce, we went up  on the night train, there wasn’t, I wouldn’t say 


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